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“Anni fa, in un noioso giorno di maggio, siamo saliti sul camion blu-arancione tanto per curiosare. E non ne siamo più scesi. Overland for Smile è diventato parte di noi. Si è infilato nelle nostre vite stringendoci in un cerchio magico. Tutti per mano, compagni di un viaggio dove sai che puoi dire “per sempre”. Di un viaggio in favore di bambini che bambini non sono mai stati”.
“Ho assistito bambini di tutti i tipi: paurosi, collaborativi, capricciosi, tutti con una caratteristica comune: un genitore che per farlo star buone dice: “Se apri la bocca, ti compro questo, ti compro quell’altro…”, di solito giocattoli di ultima generazione. I bambini, nel camione attrezzato di Overland, entrano in silenzio con occhi indagatori. Si siedono sulla poltrona, aprono diligentemente la bocca mentre la guancia talvolta si bagna di lacrime per una paura che nessuno può consolare. A parte, ovviamente, la consapevolezza che questa è l’occasione buona in cui possono finalmente liberarsi del dolore. Quando piangono, io piango con loro. Ma sorrido anche, quando, congedandosi, i piccoli mi regalano una carezza, un bacio per ringraziarmi oppure mi dedicano un disegno. Il mio ricordo va a Gabriela, cinque anni, in preda completamente al terrore. Per farle coraggio la sorella gemella le si è piazzata di fianco e spalanca anche lei la bocca, mentre io cerco di far presto nel sistemare un piccolo molare. Terminata finalmente la cura, Gabriela allunga la manina e le sfiora il naso con una carezza. Mai provata tanta tenerezza come in quel momento. L’ultimo giorno, prima dei saluti, abbiamo preparato un dolce da dividere tra tutti i bambini, ma a festa è stata turbata da singhiozzi disperati di Petruz, 10 anni, che non sapeva proprio rassegnarsi alla nostra partenza”.
“Overland for Smile e’ “l’emozione di un sorriso” e’ proprio vero, e’ l’emozione di tanti sorrisi a volte sdentanti, a volte doloranti, ma sempre riconoscenti per le cure odontoiatriche che ricevono e sempre in cerca di quell’affetto ed attenzioni che gli sono stati negati dalle loro famiglie.Sorrisi di bimbi adulti, cresciuti troppo presto.Sorrisi di compagni di squadra mai visti e già così uniti.Un sorriso dal cuore, dal nostro cuore, scaldato da un’esperienza che segnerà per tutto l’anno lavorativo, in attesa della prossima missione, della prossima squadra, del prossimo bambino da curare e da cullare nell’abbraccio arancione di tutti noi.
“Ricordo, in particolare, Alexandro, un bimbo che mi ha letteralmente rubato il cuore. Era sempre appiccicato a me ovunque io andassi. Un giorno, con il pennarello Alexandro scrive il nome “Cris” sulla fronte e quando l’ho visto, mi sono venute le lacrime agli occhi. Mi mancava tanto. Spero solo che malgrado tutto, riesca ancora a sorridere come faceva con me. Grazie all’affiatamento che si era instaurato tra noi e i piccoli, ci eravamo raccomandati di mostrarci forti nell’ultima giornata nell’orfanotrofio, di cercar di sorridere, malgrado tutto. Al momento di andare via ognuno di noi, chi di nascosto, chi apertamente, piangeva. Anche in quella circostanza sono stati i nostri piccoli angeli, a darci una lezione, perché nessuno di loro ha pianto. E mentre il pullman si allontanava, i bimbi correvano lungo la recinzione, come a volerlo seguire, come per darci un ultimo, riconoscente saluto. Grazie Overland for Smile.”
“Apprendo di Overland for Smile da “Cinzietta”. Io, che facevo già del volontariato, accetto subito di farvi parte. Nella nuova iniziativa getto il cuore, appassionandomi talmente da ripetere il viaggio fino ad una ventina di volte, fino al punto di essere annoverato tra i soci fondatori. Ogni volta dico che non andrò, e poi regolarmente mi iscrivo. Spinto a tornare mi serve semplicemente per sentirmi più medico. Oggi non è più come prima: tutto quel che fai come medico è dovuto. Tanto paghi e tanto devi avere. Farlo invece da volontario ti fa voler bene. Niente soldi, solo assegni in bianco, per così dire è cambiato anche il mio modo di accostarmi al paziente: come medico, sono più umano con chi chiede umanità, più fermo con chi pretende solamente. Non so che dire: Overland for Smile porta bene!”
“Quando nell’aprile del 2007 scopro l’esistenza del progetto, rimango affascinata dalla prospettiva di poter tornare e dare il mio “piccolo contributo” alla missione. La Romania è il paese dove sono nata e dove ho vissuto fino al 1990. Nel 2007 mi sono unita alla missione.La mia esperienza consiste in due settimane di volontariato passate insieme ad un gruppo di odontoiatri, igienisti e assistenti con i quali ho condiviso giorni indimenticabili marchiati da un’indescrivibile intensità emozionale prima ancora che professionale. Bisogna immaginare una giornata che comincia all’alba e termina alle otto di sera, con una stanchezza fisica ridimensionata dalla consapevolezza di aver condiviso il nostro stesso essere e conoscenze con dei bambini che gradualmente si aprono per consentirci di entrare nelle loro vite. Sul veicolo attrezzato, la turbina diventa infatti un’ape per i bambini, e la fresa, il suo naso. La lidocaina, una “cremutza” per addormentare il dente, l’iniezione, acqua fredda per cui i bambini avvertono il freddo e non l’ago. E la diga? Un fazzolettino per non macchiare i denti. Tutto diventa gioco che coinvolge i bambini e gli operatori. La sera ci aspetta la cena con i tradizionali piatti romeni e mi tornano alla mente i fornelli di mia madre con le “sarmale”, gustosi involtini con la verza, i “mititei”, salsicce da addentare con la mostarda, e tanto altro.I miei stati d’animo sono altalenanti: momenti di euforia alla vista di quei bambini che rimangono a bocca aperta, pazienti, per ore e ci guardano con gratitudine coi loro occhi grandi e profondi. E di tristezza nel vederli derubati dell’affetto. Io ringrazio i bambini per ogni loro sorriso e tutti i volontari per aver soffermato la loro attenzione su di loro in quest’angolo di mondo. La nostra esperienza non è stata a senso unico. Ci ha aperto il cuore e la mente. E se oggi la nostra vita è cambiata è perché “tratto beneficio” dal nostro altruismo”.
“Quando Cristina, mia moglie, mi propose di unirmi all’equipaggio di Overland for Smile per un week-end in Romani presso l’Orfanotrofio Speranza di Tulcea, pensai che fosse una cosa da pazzi. Da mia moglie, che aveva partecipato l’estate prima ad un missione nell’istituto, ho avuto un resoconto coinvolgente che mi ha convinto ad unirmi alla spedizione. Sono partito infatti con altri quattro da Latina per raggiungere Ciampino, dove si uniscono ad un secondo gruppo di Roma, più alri due , da Cassino e Varese. All’aeroporto di Bucarest, oltre ad un altro gruppo di Caserta, trovo ad attenderci un autista che ci ha condotto, in pulmino, a Tulcea, fermandosi per strada due volte a raccogliere Chris e Laura, da Milano e Antonela, preziosa traduttrice, da Ploiesti: alla fine, 24 persone in tutto. Nell’autobus l’atmosfera è elettrica, il viaggio si allunga gradualmente a cinque, sei, sette ore. Finchè tutti e 24 ci ritriviamo sule rive del Danubio in un parcheggio per camionisti. Sostituito il navigatore con un Tom Tom umano (Chris), riusciamo finalmente a raggiungere l’albergo, non senza aver percorso altri 200 chilometri su alcune delle strade più remote dell’intera piana del Danubio. Sono ormai le sei del mattino. Mihaela, la direttrice dell’istituto ci aspetta alle otto, in modo da farci trovare pronti dai bambini quando si sveglieranno. Il salone dell’albergo viene invaso in breve da bagagli, si aprono borse e cartoni con vestiti, scarpe e giocattoli raccolti in tutt’Italia attraverso decine di donazioni. In quel vortice di persone indaffarate attorno a pacchi, pacchetti e pacchettini, un addetto alla moka elettrica distribuisce “alla truppa” le necessarie dosi di caffeina. La stanchezza è enorme ma l’adrenalina sembra cancellare la fatica. Una volta varcato l’ingresso di quella costruzione scalcinata, per me è iniziata una delle esperienze emotivamente più coinvolgenti (e sconvolgenti) della vita. Mentre i bambini si radunano ci nascondiamo in una stanza per dar inizio alla vestizione di Luigi, il nostro “Mos Creciun” (Babbo Natale). La sorpresa dei 60 piccoli ospiti, quando entriamo in sala mensa, si trasforma in un’onda di entusiasmo che contagia tutti. I bambini ci danno il benvenuto cantando una canzone da consumati professionisti. Poi salta fuori una fisarmonica e si balla freneticamente tra polke tzigane e versioni stonate Calabresella mia. Consumato il pranzo in comune, la festa riprende nel tardo pomeriggio. A fine serata ci ritroviamo tutti fuori dai cancelli dell’istituto, decisi a serbare ancora un po di quelle emozioni in un vicino locale, dove ci accorgiamo che sill’onda della spontaneità dei bambini, si è cementata tra noi una certa intesa, assolutamente inaspettata, visto che fino a 24 ore prima per la maggior parte non si era mai vista prima. Rientro a casa sentendomi incredibilmente diverso rispetto a 48 ore prima. Incredibilmente e decisamente arricchito da quell’incontro indimenticabile”.